Gabriella Prandi

Estetismo decadente fin de siècle

Kandisky

Da quando Eva morse la mela e ci escluse dal Paradiso terrestre ci struggiamo per la felicità perduta. Sabine Schulze

Il mito della donna angelicata, vittima sacrificale sull’altare della virtù, non sopravvive a lungo nell’Inghilterra vittoriana dove, come nel resto d’Europa, comincia presto ad affermarsi una diversa immagine di donna forgiata dall’estetismo decadente “fin de siècle”. Queste grandi icone profane , dagli sguardi e dai gesti sensuali e provocanti compaiono già nella seconda fase della pittura di Rossetti segnando così il definitivo distacco dell’artista dall’esperienza preraffaellita

Astarte Syriaca del 1877 è un’opera già simbolista. Raffigura Astarte, la divinità siriaca dell’amore con la veste verde, simbolo dell’amore rigenerato dalla morte e una preziosa cintura composta da rose (amore) e melograni (simbolo dell’Ade ovvero morte). Il simbolismo amore e morte adombra qui il tema della “donna fatale” in cui si mescolano sensualità e crudeltà. Le prorompenti forme di Jane Burden, nuova compagna e modella di Rossetti, dominano la tela, le labbra smisurate e lo sguardo tetro caratterizzano questa immagine di “angelo dei bassifondi” che d’ora in poi dominerà la produzione rossettiana.

Incamminatesi per questa via, l’arte e la letteratura recuperano le storie di quelle eroine bibliche che avevano, con il loro fascino e usando come principale arma il loro potere di seduzione, condotto l’uomo alla rovina, alla distruzione e infine alla morte. Di nuovo amore e morte ma ora la donna da vittima si trasforma in carnefice e assassina. Gli esempi abbondano: Dalila artefice della morte di Sansone, Giuditta che fa ubriacare e poi decapita Oloferne ma soprattutto Salomè che con la sua conturbante danza costringe Erode ad ordinare la decollazione di Giovanni Battista.

Letterati e pittori si sbizzarriscono nel rievocare le immagini di queste femmine senza scrupoli capaci di rendere l’uomo schiavo dei suoi stessi desideri.

Il pittore simbolista Gustave Moreau, soprannominato il pittore delle Salomè, è il primo ad offrire al pubblico l’immagine della fanciulla che, danzando sulle piante dei piedi, rivela allo spettatore la sua ossessiva bramosia, per la testa di Giovanni Battista.

E’ poi la volta della letteratura. Gustave Flaubert, sempre nel 1876, forse ispirato proprio dal dipinto di Moreau, descriveva in Hérodias la danza di Salomè.

“…Danzò come le sacerdotesse delle Indie, come le nubiane delle cateratte, come le baccanti di Lidia. Si arrovesciava da ogni lato, simile ad un fiore agitato dalla tempesta. I brillanti delle sue orecchie saltavano, la stoffa sulla sua schiena mutava colore; dalle sue braccia, dai suoi piedi, dalle sue vesti si sprigionavano improvvise scintille che infiammavano gli uomini. Un’arpa cantò; la moltitudine rispose con acclamazioni. Senza piegare le ginocchia, divaricando le gambe, si curvò così bene che il mento sfiorava il pavimento; e i nomadi avvezzi all’astinenza, i soldati di Roma esperti nelle orge, gli avari pubblicani, i vecchi sacerdoti inaspriti dalle dispute, tutti, dilatando le narici, palpitavano di desiderio…”

Sempre a Parigi, nel 1884, Joris-Karl Huysmans, in quello che viene considerato il manifesto della letteratura decadente A Rebours descriveva le impressioni del suo protagonista Des Esseintes di fronte al capolavoro di Moureau:

“… Des Esseintes vedeva finalmente realizzata l’insolita Salomé che aveva vagheggiato. Ella non era più soltanto la danzatrice che strappa ad un vecchio, con una contorsione lasciva delle reni, un grido di desiderio e di foia, che spezza l’energia, piega la volontà di un re, turbinando i seni, scuotendo il ventre, vibrando le cosce; ella diventava per così dire, il simbolo indiato della insopprimibile Lussuria, la dea dell’Immortale Isteria, la Beltà maledetta, eletta fra tutte dalla catalessi che le fa di marmo le carni, di ferro i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, che come Elena di Troia avvelena tutto ciò che tocca…”

Nel 1896 il mito di Salomè è ancora vivo. A Parigi viene rappresentata la Salomè di Oscar Wilde, atto unico scritto in francese per l’attrice Sarah Bernhardt. In seguito la versione inglese del dramma verrà illustrata da Aubrey Beardsley, giovane disegnatore e grafico amico di Wilde.

“Ah! Tu non hai voluto lasciarmi baciare la tua bocca, Iokanaan. Ebbene! Adesso la bacerò. La morderò coi miei denti come si morde un frutto maturo. Si, bacerò la tua bocca, Iokanaan. Te l’avevo detto, non è vero? Te l’avevo detto. Ecco! Io la bacerò adesso… Ma perché non mi guardi Iokanaan? I tuoi occhi che erano così terribili, che erano così gonfi di collera e di disprezzo, ora sono chiusi. Perché sono chiusi? Apri gli occhi! Solleva le palpebre, Iokanaan. Perché non mi guardi? Hai dunque paura di me, Iokanaan, che non vuoi guardarmi?… e la lingua, che, come un rosso serpente, dardeggiava veleni, non si muove più; non dice nulla, ora, Iokanaan, questa vipera rossa che ha vomitato su di me il veleno. È strano, non è vero? Come mai la vipera rossa non si agita più? Tu non hai voluto saperne di me, Iokanaan. Mi hai rifiutata. Mi hai detto cose infami. Mi hai trattato come una cortigiana, come una prostituta, me, Salomè, figlia di Erodiade, principessa di Giudea! Ebbene, Iokanaan, io vivo ancora, ma tu sei morto e la tua testa è cosa mia. Ne posso fare ciò che voglio. Posso gettarla ai cani e agli uccelli dell’aria. Ciò che avanzeranno i cani lo divoreranno gli uccelli dell’aria… Ah! Iokanaan, Iokanaan, sei stato l’unico uomo ch’io abbia amato. Tutti gli altri uomini mi nauseano. Ma tu, tu eri bello. Il tuo corpo era una colonna d’avorio su un piedistallo d’argento. Era un giardino pieno di colombe e di gigli d’argento. Era una torre d’argento ornata di scudi d’avorio. Non c’era nulla al mondo bianco come il tuo corpo. Non c’era nulla al mondo nero come i tuoi capelli. Nel mondo intero nulla era rosso come la tua bocca. La tua voce era un incensiere che spandeva strani profumi, e quando io ti guardavo udivo una musica strana! Ah! Perché non mi hai guardata, Iokanaan? Tu hai nascosto il volto dietro le mani e le bestemmie. Hai messo sopra gli occhi la benda di colui che vuole vedere il suo Dio, ebbene, tu l’hai visto il tuo Dio, Iokanaan, ma me, me… non mi hai visto mai. Se tu mi avessi vista, mi avresti amato. Io, io ti ho veduto, Iokanaan, e ti ho amato. Oh! Come ti ho amato! E ti amo ancora, Iokanaan. Non amo che te… Ho sete della tua bellezza. Ho fame del tuo corpo. E né il vino né la frutta potranno saziare il mio desiderio. Che faro’, adesso, Iokanaan? Né i fiumi, né gli oceani potranno spegnere la mia passione. Io ero una principessa, e tu mi hai rifiutata. Io ero una vergine, e tu hai distrutto la mia verginità. Io ero casta, e tu mi hai riempito le vene di fuoco…Ah! Ah! Perche non mi hai guardato, Iokanaan? Se tu mi avessi guardato, mi avresti amato. Lo so bene che mi avresti amato e il mistero dell’amore e’ piu’ grande del mistero della morte. Non bisogna guardare che all’amore.”

Anche nell’”Austria felix” negli anni successivi la pittura segna la presenza di queste figure femminili di “assassine di uomini”, attraverso le “magnifiche ossessioni” di Gustav Klimt.

Nella Giuditta I, del 1901, il tema è sempre quello della grande seduttrice crudele che porta alla morte il suo amante. Come in una preziosa icona bizantina il suo corpo velato è incastonato nell’oro tra gioielli e fondo dorato.

Dietro la testa reclinata di Giuditta, sul fondo oro, è inciso un paesaggio arcaico tratto da un rilievo assiro. Un pesante collare di foggia barbarica sembra separare la testa dal resto del corpo come in una simbolica decapitazione che vendica la morte di Oloferne.

Come nella migliore tradizione letteraria tardo-ottocentesca, da Flaubert a Huysmans l’associazione fra oro, gemme e femminilità demoniaca appare inevitabile.

Così Flaubert descriveva Erodiade:

“Il Signore ti strapperà gli orecchini, le vesti di porpora, i veli di lino, i cerchi dalle braccia, gli anelli dai piedi e le piccole mezzelune d’oro che tremano sulla tua fronte, gli specchi d’argento, i ventagli di piume di struzzo, i tacchi di madreperla che alzano la tua statura, l’orgoglio dei tuoi diamanti, i profumi dei tuoi capelli, la tinta delle tue unghie, tutti gli artifici della tua mollezza…”

Nel 1909 Klimt ritorna al tema di Giuditta con l’opera Giuditta II conosciuta anche come Salomè. Osservando questa figura lo sguardo è immediatamente attratto dai polsi avvolti da preziosi bracciali che introducono le mani, bellissime e febbrili, che si aggrappano alla gonna reggendo per i capelli la testa mozzata di Oloferne/Battista.

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