Elio Fabri

Elio Fabri

Piuttosto che maledire il buio, è meglio accendere una candela (Lao-Tzu). Ovvero:non stare lì a lamentarti, ma datti da fare; non potrai forse ottenere molto, ma un po’ di luce potrai farla

L’anno scorso, nel pezzetto di terra che posseggo nelle Dolomiti, al margine della Foresta Demaniale di Paneveggio, ho fatto tagliare un larice. Prima divenire accusato di qualche reato “ecologico,” metto le mani avanti. Anzitutto, il taglio era stato regolarmente autorizzato dal Corpo Forestale dello Stato, nella persona di un forestale che venne, misurò e contrassegnò l’albero da tagliare. In secondo luogo, da quando ho comprato quel terreno sono molti di più gli alberi che ci sono cresciuti, di quelli che sono stati tagliati.

Del resto in quei posti l’ambiente di equilibrio è la foresta di Abete rosso; i bei prati che piacciono ai turisti esistono solo perché — e finché — vengono falciati. E poi anche le foreste (al di fuori del Parco) sono tutt’altro che naturali, ma vengono regolarmente accudite con tagli a rotazione e ripopolamenti, ripulitura del sottobosco, ecc.

Non sarebbe forse male che si facessero notare ai giovani queste cose, che al villeggiante distratto possono sfuggire: anche in ambienti che a noi, gente di città, sembrano “natura incontaminata,” la presenza dell’uomo ha influito pesantemente. Solo che c’è modo e modo. . . Per esempio, tagliare il bosco con una strada asfaltata per consentire al turista di arrivare a un passo o a una malga senza faticare, significa restringere la libertà di movimento di molti animali. Nei primi anni in cui frequentavo quella zona erano comuni le visite dei caprioli fin sotto casa; ora non se ne vedono più.

Ma non era questo il motivo per cui ho parlato del larice tagliato: il fatto è che il lupo perde il pelo ma non il vizio, e perciò di fronte al tronco abbattuto e sfrondato mi sono subito poste alcune domande “da fisico.” La ragione delle virgolette è che in realtà quelle domande non se le dovrebbe porre solo un fisico, ed è questo il tema della puntata.

Prima domanda: che massa aveva quest’albero? Non è stato difficile misurare il tronco e stimarne il volume: risultato, circa un metro cubo (questo, come tutti i numeri che darò in seguito, è solo una grossolana approssimazione, ma del tutto sufficiente per lo scopo che mi propongo). Però quello misurato era solo il tronco, mancante della cima e dei rami. Inoltre c’era da considerare il ceppo e le radici: non credo di sbagliare di molto se stimo il volume totale a 1.5 m3 . La densità del legno di larice è un po’ minore di quella dell’acqua, e perciò la massa del mio albero sarà stata poco maggiore di una tonnellata.

Che interesse può avere questa massa? La risposta a fra poco. Era fin troppo ovvio porsi un’altra domanda: che età aveva il larice? Il conto degli anelli mi ha dato all’incirca 60 anni. (All’incirca, perché non è mica facile contare con precisione gli anelli di accrescimento di un albero! Questo sia detto per chi crede che sui numeri interi non ci possano essere errori di misura.) Dunque in 60 anni da un piccolo seme si è arrivati a una tonnellata di legno; ed ecco l’altra domanda: da dove è venuta questa materia?

Ora apriamo una parentesi: la risposta ovviamente la so io come la sapete voi, ma lo scopo del discorso è che vorrei invitarvi a farlo in classe. Perché un conto è fare le consuete trattazioni della fotosintesi, e un altro è vedersi davanti un albero alto 30 metri e pesante una tonnellata, e chiedersi “da dove è venuto?” Anzi, suggerirei di cominciare proprio da qui. PrAddendum di fine agostoobabilmente la prima risposta sarebbe che l’albero si accresce perché le radici “succhiano nutrimento dal terreno.” Allora faremo notare che in realtà le radici succhiano acqua e poco altro, tanto è vero che le piante possono crescere benissimo nell’acqua. . . Sı̀, lo so che c’è l’azoto, il fosforo, gli oligoelementi, ecc.; ma il punto è che il legno è essenzialmente acqua, lignina e cellulosa. Passi per l’acqua, e cosı̀ pure per l’idrogeno e l’ossigeno, che possono essere tratti dall’acqua; ma il carbonio della lignina e della cellulosa da dove è venuto?

Osservo che abbiamo incominciato a usare un “principio di conservazione”: per ogni elemento chimico che ritroviamo nel legno, vogliamo scoprirne la fonte, perché gli atomi (ad es. di carbonio) non possono essere apparsi dal nulla. Quanto carbonio c’era nel mio larice? Confesso che questa è la parte più incerta del calcolo; un po’ perché le mie nozioni in materia sono scarse, e un po’ perché i dati non sono facili da trovare. Azzardo che un 20% in peso del legno fresco sia carbonio; ma ripeto che anche se la stima fosse un po’ sbagliata non cambierebbe la sostanza di quello che voglio dire.

Dunque si tratta di 200 kg di carbonio che in 60 anni si sono raccolti in quell’albero provenendo dall’atmosfera, che è la sola sorgente sicura di carbonio (CO2 ). Per trovare nell’aria 200 kg di carbonio, ossia oltre 700 kg di CO2, bisogna usarne più di 2 milioni di metri cubi; ma non è tanto questo che m’interessa.

Vorrei invece affrontare l’aspetto energetico. Per costruire la materia di cui è fatto l’albero a partire da H2O e CO2 , occorre energia. Come faccio a dirlo? In termini qualitativi, basta osservare che la reazione inversa è quella che sfrutto quando faccio bruciare la legna nel caminetto. Se da questa ottengo energia, con la quale scaldo la casa, per sintetizzare il legno occorre fornire energia dall’esterno.

È bene notare che qui abbiamo usato idee fondamentali di termodinamica.

Ci sono due diversi stati dello stesso insieme di atomi: da una parte i polimeri che formano il legno, dall’altra i composti più semplici come H2O e CO2 . A ciascuno di questi stati appartengono certi valori delle grandezze termodinamiche come l’energia interna, l’entalpia, ecc., e nel passaggio da uno stato all’altro queste grandezze cambiano di valore, in un senso o nel senso opposto. Mi sembra sempre bene mettere in rilievo il carattere generale di certi modi di ragionare: gran parte del pensiero scientifico sta proprio nel cogliere gli aspetti comuni a situazioni e fenomeni apparentemente diversi (non solo nel lato fisico, ovviamente).

Come faccio a sapere quanta energia occorre per “costruire” l’albero? Potrei procedere all’ingrosso, basandomi ad es. sul “potere calorifico” (curiosa espressione, che a me fa sempre venire in mente il famoso detto “opium facit dormire quia in eo est virtus dormitiva”) della legna, che si può chiedere anche a un tecnico di riscaldamento; oppure consultare delle tabelle di dati chimici. Procedendo nel secondo modo trovo per i carboidrati numeri non molto diversi da 4000 kcal/kg.

Poiché una tonnellata di legno fresco contiene intorno al 50% di acqua, dobbiamo fare il calcolo con 500 kg, e arriviamo a 2·106 kcal pari a 8·109 J (tralasciando gli spiccioli). Sempre nello spirito di fare i calcoli molto all’ingrosso, non mi preoccupo del fatto che il calore di combustione è una variazione di entalpia e non di energia: la differenza non è grande, e non mette neppure conto di parlarne nel nostro contesto.

Prima di andare avanti coi calcoli, fermiamoci un momento a riflettere. Il numero che abbiamo trovato è grande? è piccolo? è cosı̀ cosı̀? Non bisogna farsi influenzare dalla potenza di 10, e tanto meno dalle parole (otto miliardi di joule; ma del resto che cosa sono otto miliardi di fronte al debito dello Stato italiano, che è 200 milioni di volte più grande?) Cerchiamo dunque di vedere che cosa potremmo fare con quell’energia. Se potessimo usarla tutta, senza perdite, potremmo ad es. portare 6 000 persone sulla cima della Marmolada con la funivia di Malga Ciapela; se l’avessi sotto forma di benzina, anziché di legna, potrei farci due viaggi di andata e ritorno da Pisa a Taranto; oppure potrei evitare di pagare la bolletta dell’ENEL per due anni.

Ora che sappiamo quanta energia c’è voluta, chiediamoci da dove è venuta.

La risposta la sanno ormai tutti: viene dal Sole. Ma se non ci accontentiamo delle parole, vogliamo verificare se è possibile che l’albero abbia raccolto dal Sole una quantità così grande di energia. A questo scopo dobbiamo sapere quanta energia il Sole invia sulla Terra: quella che nel gergo si chiama la “costante solare.” Si tratta di circa 1400 W/m2, ma bisogna farci la tara, per molte ragioni.

La prima è che c’è la notte; poi la frazione assorbita dall’atmosfera, che dipende dall’altezza del Sole sull’orizzonte; poi la presenza delle nuvole. Tutto sommato, bisogna ridurre almeno di un fattore 20. A questo punto, se stimiamo l’area della chioma in 100 m2 , troviamo una media di 7000 W, che in 60 anni di vita dell’albero danno 1.2·1013 J: 1500 volte quello che ci serviva. Troppa grazia! Abbiamo sbagliato qualcosa?

Poiché questo discorso è già stato abbastanza lungo, preferisco rimandare la risposta alla prossima puntata [vedi candela n. 3], se avrete ancora la pazienza di leggerla; così potrete anche pensarci su. Dopo di che, spiegherò lo scopo, specialmente didattico, di tutta questa orgia di numeri, un po’ sensati e un po’ solo tirati a indovinare.

Nel frattempo (sto scrivendo alla fine di giugno) io sarò tornato a rivedere i larici e gli abeti sui quali vi ho intrattenuto. Se un altr’anno volete venirmi a trovare, vi dirò come arrivarci, ma in segreto, perché è un posto poco frequentato e mi fa piacere che resti così.

Addendum di fine agosto.

Mentre ero in montagna, ho letto sui giornali del 26 agosto che il questore di Lucca ha chiesto alle guardie forestali di estirpare lo stramonio che cresce spontaneo nella campagna. Chiedo scusa al sig. Questore, ma mi è venuto da ridere: mi sono guardato intorno, e ho visto con la fantasia battaglioni di guardie sguinzagliate per i prati e lungo i ruscelli a strappare il colchico, l’aconito, il veratro, e non so quali altre piante velenose.

Mi auguro che non perderete l’occasione per far notare quanto sia assurdo questo atteggiamento: se qualche mascalzone prepara un decotto allo stramonio, e qualche ragazzo è così stupido da berlo, la colpa non è della povera pianta; così come quando degli sconsiderati si avventurano in maglietta e scarpe da ginnastica per un ghiacciaio, e finiscono per morire assiderati in un crepaccio, è da irresponsabili titolare la cronaca “Monte Bianco assassino.”

Sto scoprendo che tenere una rubrica fissa su di una rivista presenta una difficoltà che non avevo prevista. Nella prima puntata ho lanciato una proposta di lavoro, sulla quale dovrei tornare; nella seconda, ho lasciato a metà un discorso; frattanto nel mondo sono accaduti alcuni fatti che mi piacerebbe commentare, è stata pubblicata una lettera alla quale forse dovrei rispondere, c’è l’articolo di J. Tornasi (Il capitombolo di Ulisse, anno 5, n. 3) che tocca un tema già inserito nel mio programma iniziale… Insomma, si sono aperte una quantità di strade che dovrei o vorrei percorrere. Se non altro, vuol dire che non mi troverò a vivere il classico dramma dello scrittore davanti al foglio bianco che non sa come riempire…

Vediamo dunque di concludere il discorso dell’altra volta. Prima di tutto, debbo fare ammenda di una papera colossale che ho presa, quando ho scritto che il debito pubblico italiano è 200 milioni di volte 8 miliardi. Non c’era proprio bisogno di far diventare 1000 volte più grande del vero un debito che è già astronomico per suo conto! Approfitto dell’occasione per segnalare che nella composizione dell’articolo si sono intrufolati alcuni refusi, per fortuna di poco peso. L’unico che vale la pena di notare è che ovviamente 2 • 106 kcal equivalgono a 8 • IO9 J: l’unità di misura è saltata, ma non avrete avuto difficoltà a ricostruirla.

L’altra volta ci eravamo lasciati con un fattore 1500 (vero) che non tornava: tentando di stimare l’energia occorrente per costruire un albero, e quella che lo stesso albero può aver ricevuto dal Sole nel corso della sua vita, quest’ultima ci era risultata di gran lunga maggiore. Avevo concluso con un interrogativo: abbiamo sbagliato qualcosa?

In realtà avevamo dimenticato almeno due fatti molto importanti (e chissà quanti altri più o meno importanti …). Il primo è che l’albero non utilizza tutta la radiazione solare che gli arriva. Una buona parte viene immediatamente riflessa (infatti le foglie sono verdi, non nere); una frazione significativa viene spesa nella traspirazione; ci saranno poi altre perdite che non so elencare: che cosa resta? Qui ricorro agli esperti, i quali mi dicono che solo l’l% della radiazione solare viene usata nella fotosintesi (di più in certe piante coltivate, come il grano e il mais). Dunque il fattore 1500 si riduce a un più modesto fattore 15.

Il secondo fatto che avevamo dimenticato è che gli alberi d’autunno perdono le foglie. In realtà non tutti, e non le conifere; ma il larice (Larix decidua) credo sia l’unica aghifoglia europea a non essere sempreverde. Una curiosità: molte persone confondono i larici con gli abeti: ricordo di aver sentito una volta qualcuno che vedendo dei larici spogli se ne uscì: “che peccato, tutti quegli abeti morti!” S’intende che anche le foglie degli abeti non sono eterne: se no, quei tappeti di aghi nelle abetaie, su cui nascono i funghi detti “finferli” o “gallinacci” (Cantarellus cibarius) da dove spunterebbero?
In tutti i casi, anche le foglie e i rametti secondari che cadono ogni anno sono massa prodotta per fotosintesi, ed è difficile stimarne la quantità; però non è piccola, come so ben io che tutti gli anni debbo salire sul tetto a liberare le grondaie intasate dagli aghetti. Non è perciò assurdo pensare che in 60 anni la massa di aghi e rametti assommi a 15 volte quella del tronco; del resto con rametti, vecchi rami morti, ecc. ci mando avanti in parte il caminetto e uno scaldabagno… Se accettiamo questa ipotesi, finalmente i conti tornano. Potremo forse rivedere e raffinare qualcosa, ma l’ordine di grandezza non cambierà.

Arrivato in fondo, mi resta solo da spiegare perché ho costretto gli eventuali lettori (o lettrici: anzi queste sono probabilmente di più) a seguire i miei problematici calcoli. Bisogna proprio convenire che i fisici hanno la mania dei numeri? E chiaro che qui sto toccando un punto importante nella discussione sui paradigmi scientifici: la controversia qualitativo/quantitativo, ovvero la questione: è possibile una scienza solo qualitativa? e una solo quantitativa? oppure i due paradigmi sono caratteristici di scienze diverse? oppure di fasi di sviluppo diverse di una data scienza? Domande troppo grosse perché io mi senta di dare risposte con pretesa di validità generale; mi limito quindi a qualche osservazione sparsa.

In primo luogo, non è sempre facile distinguere tra i due corni del dilemma. Se dico che le piante per crescere hanno bisogno della luce, questa è un’affermazione qualitativa, ma è pure evidente che anche la quantità di luce ha la sua importanza. L’altra faccia della questione si è vista proprio nel ragionamento sul larice: non era affatto importante che i calcoli tornassero fino all’ultima cifra, ma solo verificare l’ordine di grandezza. Voglio soffermarmi a osservare che questo punto sfugge spesso ai profani e ai principianti: entrambi sembrano prendere a criterio di “scientificità” l’esattezza dei calcoli, senza peraltro curarsi di definire questa ipotetica esattezza.

Succede così di trovarsi presi tra due fuochi: da un parte quelli che accusano la scienza “dura” di essere maniacalmente attenta ai numeri; dall’altra quelli che sono pronti a prendere in castagna qualsiasi ragionamento approssimativo, perché troppo pericolosamente “qualitativo”!

Un altro modo di vedere la questione sta nel ricorso alla storia della filosofia: qualitativo = Aristotele, quantitativo = Platone. Dopo di che, ci si divide in due partiti: pro Platone o pro Aristotele… A mio parere in questo modo di presentare le cose ci sono alcuni equivoci, il primo dei quali è responsabilità di alcuni storici della scienza (ad es. Koyré) che hanno insistito sul “platonismo” di Galileo, prendendo a pretesto la famosissima frase del Saggiatore): “… questo grandissimo libro … (io dico l’universo) … è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche …”. Il mio modesto avviso è che qui non di platonismo si tratti: Galileo non dice che la vera realtà sono gli enti matematici, ma solo che non è possibile capire il mondo senza conoscere il linguaggio della matematica. Purtroppo non posso permettermi ora di approfondire il discorso.

Dunque non credo che Galileo fosse platonico, e certo non lo sono i fisici di oggi; lo sono se mai i matematici, alcuni dei quali sono fermamente convinti che le entità di cui si occupano abbiano un’esistenza oggettiva, fuori delle loro menti. E invece vero che Galileo è antiaristotelico, e soprattutto antiperipatetico (ho scritto due parole di 16 lettere: prometto di non farlo più, almeno per oggi). Lo è per vari motivi, di cui i principali sono proprio l’esigenza di una scienza quantitativa (o meglio basata sulla matematica, che non è la stessa cosa) e il rifiuto del ragionamento per analogia e della logica finalistica. Direi che ancor oggi la fisica sta sulla stessa strada, ma non senza occasionali o profonde escursioni nell’altro campo, delle quali non è ora il caso di trattare.

E se lasciamo la fisica, come vanno le cose? Ovviamente il mio giudizio è molto meno sicuro, ma direi che si assiste, in tutte le scienze, a una dialettica tra i due aspetti. Parlando della biologia, mi sembra che il contrasto tra qualitativo e quantitativo abbia molti punti di contatto con quello tra olismo e riduzionismo, su cui mi riprometto di tornare; insomma, si tratta di un terreno tutt’altro che pacifico.
Ma vediamo la questione da una visuale più vicina al mestiere dell’insegnante, prendendo qualche esempio dalla cronaca più o meno recente. Pochi anni fa, durante un periodo di forte e prolungata siccità, ricordo di aver letto su di un giornale che la mancanza di pioggia aveva fatto calare il livello del Mediterraneo: misure eseguite nello stretto di Messina mostravano un abbassamento di 40 cm. Semplicemente a lume di naso mi pareva che la cosa fosse incredibile, per cui tentai una stima, al modo seguente.

In condizioni normali il livello del mare è tenuto costante dall’equilibrio fra le entrate e le uscite: dal lato entrate abbiamo le precipitazioni sul bacino del Mediterraneo, più l’apporto dello stretto di Gibilterra (trascuro il canale di Suez), mentre dal lato uscite abbiamo l’evaporazione. Supponiamo che durante la siccità le piogge cessino del tutto e i fiumi riducano a zero la loro portata, mentre il resto non cambia in modo apprezzabile: basta allora conoscere l’entità media delle precipitazioni e l’area della superficie del mare, per valutare di quanto scenderà il livello in un dato tempo. Poiché l’ipotesi fatta è molto esagerata di fronte a qualunque siccità reale, otterremo una stima per eccesso. Risultato: meno di 70 cm se la siccità dura per un anno intero. Dunque i casi sono due: o l’abbassamento era un’invenzione, o aveva altre cause.

Non è difficile trovare queste cause: in primo luogo le maree, che possono essere più o meno ampie a seconda delle fasi lunari e della stagione (sono massime agli equinozi). C’è poi, tutt’altro che trascurabile, la pressione atmosferica, che fra minima e massima può variare tranquillamente di 6 kPa, corrispondenti a 60 cm d’acqua. Dunque il fenomeno era verosimile, ma la causa era tutt’altra. Il punto essenziale è che a una tale conclusione non si sarebbe potuti arrivare senza un po’ di numeri.

L’utilità didattica sta in questo: poniamo il problema in classe, al modo seguente: “di quanto si abbasserebbe il Mediterraneo, se cessassero tutte le piogge e tutti i fiumi smettessero di portare acqua?” Di fronte a una simile domanda i ragazzi non sapranno da che parte rigirarsi: dovranno cominciare a schematizzare la situazione (equilibrio tra precipitazioni, apporto dei fiumi ed evaporazione) per poi individuare le grandezze significative e infine cercare i dati (senza nessuna necessità di “precisione,” ma solo con ragionevole attendibilità). Un esercizio che mi pare sommamente educativo. Per esempio: quanti ragazzi sanno che grazie al Nilo il bacino pluviale del Mediterraneo si estende ben dentro l’Africa?

Finisco con una segnalazione: all’ultima edizione del premio Bonacini, che l’AIF (Associazione per l’Insegnamento della Fisica) bandisce ogni anno per classi di scuola secondaria inferiore e superiore, nella sezione per la scuola media il tema era: “L’energia che proviene dal Sole.” Il premio è stato vinto da una 3a della Scuola Media di Buti (PI) con un lavoro che affronta, su base sperimentale, proprio lo stesso problema qui trattato parlando del larice (nel loro caso era un pesco). I tabelloni preparati dai ragazzi, e che descrivevano le varie fasi del lavoro, le misure eseguite e le conclusioni raggiunte, erano esposti al Congresso dell’AIF che ha avuto luogo a Udine alla fine dello scorso ottobre; una sintesi del lavoro sarà pubblicata sulla rivista dell’AIF. A quanto ne so il prof. Benedetto Gatti, che ha guidato la classe, e che non conosco di persona, è di formazione geologo. Credo che la coincidenza, sia spaziale, sia temporale, col mio discorso sia fortuita, ma non per questo meno interessante.

Spread the love