Guido Pegna
L’apparentemente irrisolvibile nodo della didattica della scienza: il prof. Guido Pegna del dipartimento di Fisica dell’Università di Cagliari espone i risultati di un piccolo esperimento didattico e i suoi sconcertanti risultati
Ho di fronte a me, in piedi, una quindicina di ragazzi. Fra me e loro c’è un tavolo sopra il quale vi sono molti piccoli oggetti: fili elettrici, pile, calamite, piccole bussole, un tester, delle lampadinette, del filo di ferro e molti altri. Gli studenti fanno parte di una classe di liceo in visita al Museo di Fisica di Sardegna1, di cui sono il responsabile da molti anni. Ogni settimana, durante l’anno scolastico, vengono in visita al Museo due o tre classi provenienti dalle varie scuole della Sardegna, dalle elementari ai licei. Da quando ho introdotto il terribile trattamento a cui li sottopongo e che descriverò qui di seguito, cioè da tre o quattro anni, ho accumulato una bella casistica, sufficientemente ampia da poterne parlare con competenza.
Questo articolo è poi anche comparso in La Fisica nella Scuola, la rivista dell’Associazione per l’Insegnamento della Fisica, A.I.F., n.3/ 2014
Prima di quel periodo le visite si svolgevano come qualunque altra visita ad un museo: gli studenti, accompagnati da uno o due animatori, venivano guidati lungo un percorso dove venivano fatti loro vedere e spiegati molti esperimenti su importanti fenomeni fisici, alcuni dei quali molto spettacolari e sorprendenti, altri che potevano azionare loro stessi, altri ancora che avevano a che fare con la loro esperienza quotidiana ma in una forma differente e inaspettata. I ragazzi seguivano le spiegazioni in silenzio, senza che fosse possibile capire quale impatto essi avessero ricevuto, esattamente come seguono le spiegazioni in una materia noiosa. Alcuni si distraevano, altri sparivano dopo poco. Attorno alle macchinette distributrici di bevande e snaks il loro numero aumentava man mano. Le mie richieste ai loro professori di farmi sapere quanto fosse rimasto nelle loro zucche a seguito di quella visita raramente ricevevano una risposta, e quando me la inviavano era sempre molto generica, come per esempio “i ragazzi sono stati molto contenti”, “i ragazzi si sono molto interessati”. Evidentemente le categorie da conseguire nella visita ad un museo sono quelle dell’accontentamento e dell’interessamento; mai quella dell’avere imparato qualcosa, del saperla rapportare alle cose del mondo e del servirsene.
Come dicevo, oggi ho di fronte a me una decina o quindicina di ragazzi e ragazze di una quinta liceo scientifico. Non hanno mai messo piede in laboratorio, o se l’hanno fatto per due o tre volte sono stati messi di fronte ad una procedura predeterminata e noiosa che non ha lasciato in loro alcuna traccia. Ora comincia il trattamento crudele e spietato. Prendo una pila, un filo di rame, ne connetto gli estremi ai poli della pila e lo avvicino alla piccola bussola. L’ago della bussola devia. Allora punto l’indice verso uno dei ragazzi e gli dico bruscamente: “Descrivi ciò che hai visto”. Lui non se l’aspettava. È perplesso. Mi guarda, non sa cosa sta succedendo. Io insisto: “Puoi dirmi cosa è successo?”. Lui farfuglia con un filo di voce: “La bussola si è mossa”. “Perché si è mossa? Che cosa ho fatto io per farla muovere?”. Non risponde, guarda il suo vicino di destra, cerca aiuto. Allora io: “Ora ti faccio vedere di nuovo” e ripeto l’esperimento.
Avvicino di nuovo il filo percorso da corrente alla bussola e l’ago di nuovo devia. “Puoi descrivere quello che hai visto? Che cosa ho fatto?”. Da notare che nel programma che hanno svolto quell’anno, mi sono informato prima, l’esperimento di Ørsted dovrebbero già averlo visto, naturalmente solo sui libri e abbellito da alcune eleganti formule che il professore ha scritto sulla lavagna o presentate su una LIM (Lavagna Interattiva Multimediale). Il povero ragazzo di nuovo azzarda: “Lei ha avvicinato il filo…” e poi tace. Allora io prendo un piccolo cilindro metallico che sta sul tavolo, lo avvicino ad una vite e la vite si attacca al cilindro. Poi lo porgo al ragazzo, che stacca la vite dall’oggetto, poi la riattacca. Ora ha un accenno di sorriso. “Che cosa è quell’oggetto?”, chiedo al ragazzo. “Una calamita”, risponde sicuro. “Benissimo, bravo. Ora guarda”. Gli prendo la calamita, l’avvicino alla bussola e l’ago devia. Poi ripeto l’esperimento con la pila e il filo, e l’ago devia più o meno nello stesso modo. Chiedo: “Ora puoi dirmi un po’ meglio quello che hai visto?”.
Lui prova: “Avvicinando un filo collegato ad una pila l’ago della bussola si muove”. “Bravo!”, dico io, “ora prova tu”. Gli do il filo e la pila. Lui ha qualche difficoltà nel tenere con due dita di una mano gli estremi del filo a contatto con la pila, poi ci riesce, ma ha un tremito. “Cosa hai fatto?”. “Ho collegato il filo, l’ho avvicinato alla bussola e l’ago si è mosso”, risponde. Ci stiamo avvicinando ad una descrizione accettabile. Ora tento il salto logico più difficile. “Quale è la causa della deviazione dell’ago della bussola?”, e prendo in mano la calamita e gliela indico. “Il magnetismo…?”. “Umm… ci stiamo avvicinando. Diciamolo po’ meglio …”. Mi aspetto da lui una risposta, quella che voglio arrivare a fargli dire, ma questa non arriva. Allora decido di interrompere il tormentoso interrogatorio, anche perché bisogna mantenere un certo ritmo ed evitare che gli altri si annoino e dico: “È il campo magnetico che fa deviare l’ago, giusto?”. Lui annuisce, anche se non sono sicuro che possieda il concetto di campo, ma per ora non importa. Ora riprendo i botta e risposta, di cui qui ho dato l’esempio, e che nella realtà sono durati solamente tre o quattro minuti, fino a portarlo ad una formulazione corretta e compatta come la seguente: una conduttore percorso da una corrente elettrica crea attorno a se un campo magnetico. Meglio ancora, nella formulazione causa-effetto, o se-allora: se un conduttore è percorso da una corrente elettrica allora genera un campo magnetico.
Ora punto l’indice verso un altro ragazzo, ripeto l’esperimento della bussola e gli chiedo: “Puoi descrivere quello che hai visto?”. Non è mai successo che il secondo ragazzo descrivesse correttamente il fenomeno come aveva appena finito di dire il compagno cinque secondi prima. Ripeto la successione delle domande e degli esperimenti anche con questo ragazzo, e questa volta arriviamo un po’ più velocemente al risultato voluto. Poi faccio la stessa cosa con tutti gli altri, anche con le ragazze che si sono messe dietro e che cercano di nascondersi. In conclusione: in una mezz’ora di tempo quasi tutti sanno dire che cosa è l’esperimento di Ørsted, uno dei capisaldi dell’elettromagnetismo, un fenomeno che ha enormi applicazioni pratiche, come nel frattempo ho avuto modo di far presente, per esempio in tutti i motori elettrici – gliene ho fatto vedere uno e l’ho fatto funzionare – e in mille altre cose che vediamo e usiamo tutti i giorni.
Ma soprattutto forse sono riuscito a iniettare in quelle zucche un fatto molto più generale: che tutto ciò che accade può essere descritto in termini di causa-effetto, nella forma generale “se-allora”. Per finire mi rivolgo di nuovo al primo ragazzo e gli chiedo di ripetere la formulazione corretta a cui era giunto alla fine del terribile interrogatorio. Lui la ripete abbastanza bene. La ripeto anch’io. Faccio la stessa cosa anche con alcuni altri, con lo stesso risultato. La stabilizzazione di un concetto richiede una prima ripetizione a breve termine. Ora sono abbastanza sicuro che quando all’esame di maturità qualcuno chiederà loro che cosa è l’esperienza di Ørsted, oppure cosa succede se un filo è percorso da corrente, essi risponderanno correttamente, ma anche, e soprattutto, che vedranno il mondo in modo più consapevole, che un po’ più di prima possiederanno una struttura formale di descrizione e di comprensione.
Ma vi sono cose più interessanti. Ho sottoposto a questo trattamento ragazzi di tutte le età, da quelli delle scuole medie inferiori a studenti universitari che avevano già seguito lezioni sull’elettromagnetismo. L’andamento tipico del dialogo che ho descritto si ripete identico a tutti i livelli. La loro capacità di descrivere ciò che hanno appena visto è bassissima. La loro attitudine a collegare due elementi – l’azione di una calamita e l’azione di una corrente elettrica – in una formulazione più generale è zero. La struttura descrittiva generale causa-effetto del tutto al di fuori del loro modo di inquadrare i fatti. Ma la cosa più sorprendente e più impressionante è un’altra, che posso riassumere nella seguente affermazione: le lezioni sia scolastiche che universitarie, così come vengono fatte, non servono a nulla. Non servono a nulla.
NON SERVONO A NULLA2. Abbiamo noi insegnanti ben chiara l’idea che siamo pagati per insegnare, PER INSEGNARE? E non per intrattenerli, per interessarli, per divertirli, per fare di fronte a loro la bella figura del bravo professore, perché dobbiamo portare a casa in qualche modo uno stipendio, perché è il nostro secondo lavoro, perché dobbiamo sopportarli nelle loro turbolenze? Abbiamo accettato di venire pagati per studiare e per insegnare, non per avere il cervello lesionato da pedissequi adempimenti burocratici e continue insulse riunioni, non per riprodurre le ottocentesche liturgie dell’insegnamento di cui fummo a nostra volta vittime trent’anni prima; non per arrabattarci con un laboratorio che è stato abbandonato senza dotazioni e senza personale3.
1. Il Museo di Fisica di Sardegna è nel Dipartimento di Fisica nella città universitaria di Monserrato. È visitabile sia liberamente che su appuntamento scrivendo a pegna@unica.it. Il sito del museo: www.museodifisica.it. Vedi anche: www.foucaultpendulum.it.
2. Sappiamo che all’università le lezioni si possono non seguire, e infatti normalmente vengono poco seguite. Quando si deve preparare un esame ci si chiude in casa, spesso mesi o anni dopo avere frequentato o non frequentato il corso, e si parte da zero studiando sui libri. Nelle scuole ci si prepara per l’interrogazione, che si sa già quando e su cosa verterà; poi si può dimenticare tutto. Esame di maturità: non credo possa essere affrontato con le sole nozioni apprese a scuola durante gli anni scolastici senza avere studiato come ossessi per conto proprio nel mese che lo precede.
3. In Sardegna uno studente su quattro abbandona gli studi prima di concluderli, una percentuale che è la più alta in Italia. La media europea è esattamente la metà. Il nostro Paese si piazza per investimenti nella scuola al 31esimo posto tra i 32 paesi OCSE considerati . Secondo le indagini PISA la Sardegna mostra un punteggio significativamente inferiore alla media nazionale e molto inferiore alla media europea in matematica e nelle scienze.
*Fisico. Università di Cagliari. Narratore